Le anse del fiume – 3. CAVE CANEM – Gilberto Gobbi
Sul cancello vi era la cassetta della posta, con il solito coperchio alzabile. Ogni volta che passava, Franco si fermava a guardare e sollevava la manina per muovere il coperchio più e più volte. Il nonno paterno lo tirava su e gli permetteva di aprire e chiudere più volte il coperchio della fessura.
Da sempre l’aveva colpito una lastra di marmo, sistemata sopra, con una scritta. Franco era troppo piccolo e non sapeva leggere. Chiedeva al nonno, ogni volta, di leggergliela. I bambini si ripetono e godono nel chiedere più volte la stessa cosa. Per loro è un piacere, una riscoperta e una conferma del mondo circostante. I grandi hanno difficoltà a capire e si stancano delle domande ripetute dei bambini. La favola, il bambino la vuole sentire più e più volte. Il nonno di Franco non si stancava di ascoltare e di dare spiegazioni.
Franco l’aveva imparato a memoria e recitava la scritta accentuando tutte le sillabe delle due parole: ca-ve ca-nem. Non poteva prevedere che in futuro avrebbe studiato il latino e altro. In quella situazione, poi, ogni previsione era un’utopia. Qualche volta, nella vita di alcune persone, l’utopia, in parte, si realizza. Occorre crederci.
Il nonno diceva di non saperne il significato, ma che parlava del cane e forse voleva dire , diceva, “attenti al cane”. Ogni volta il nonno guadava il nipote con i suoi occhi sorridenti.
Il cane c’era. Lo si sentiva abbaiare oltre il muro, che ermeticamente rinserrava la villa. Neanche il cancello permetteva di vedere dentro, se non quando si apriva per lasciar uscire una macchina nera. Ogni tanto si udivano delle voci di adulti che si mescolavano con quelle di bambini.
Franco aveva visto, un giorno, aprirsi il cancello, uscire una macchina nera, che solo successivamente, da grande, ha identificato come una Lancia. Il portone era stato immediatamente chiuso da una ragazzotta vestita da balia. Ha potuto vedere un viale, una fila d’alberi, un cane grande giocare con una bambina della sua età.
Il nonno lo teneva per mano; una mano grossa e callosa, contenente e tenera, gentile, com’era gentile il suo modo di rivolgersi agli altri, in special modo ai bambini. Il nonno era conosciuto per la sua bontà.
Era il ’41, tempo di guerra. Franco era a casa dei nonni paterni, perché i suoi genitori erano “ai lavori” in Germania.
I nonni condividevano la casa con una zia, suo marito e una figlia di quattordici anni. A lui, bambino, quella casa sembrava grande: vi erano un’entrata, una cucina con un lungo tavolo di legno scuro, alla parete sinistra un grande focolare, con due catene pendenti per due fuochi e due pentole.
Una porta dava ad una scala di legno, che portava al piano superiore, dove vi erano tre stanze da letto, tra loro comunicanti: una per gli zii, un’altra per la cugina e la terza per i nonni.
Franco dormiva nel lettone con i nonni. Ogni sera, prima di dormire, faceva le capriole, una, due, tre e anche quattro. Il nonno gliele permetteva, mentre la nonna si scocciava e anche si arrabbiava con il nonno, che era “troppo buono”.
Andavano a letto presto, al lume di petrolio. La corrente elettrica passava davanti alla casa, lungo la provinciale, ma erano poche le famiglie che avevano l’allacciamento. Solo verso il 1950 la luce elettrica ha rischiarato quella ed altre case della borgata.
In quella casa vi erano due famiglie, due fuochi, due…, tutto due; anche il tavolo era diviso in due parti; ad ogni nucleo familiare il suo settore, con la sua tovaglia e le sue misere pietanze.
Spesso, la sera, nei due paioli si coceva la polenta o le patate, le erbe da campo, che ogni donna, madre e figlia, una a fianco all’altra accudiva, attizzando il proprio fuoco, senza parlare.
Per Franco era l’ora delle orazioni, che gli faceva recitare la nonna. Quando poteva, partecipava anche il nonno. Franco doveva interrompere i giochi e inginocchiarsi su una sedia al fianco della nonna, che le biascicava. Le preghiere erano in latino. Lei sapeva appena fare la propria firma, mentre il nonno aveva studiato fino alla terza elementare, leggeva correttamente e sapeva far di conto.
Ma l’acculturato di famiglia era il padre di Franco, che aveva conseguito il diploma di quinta elementare e in più aveva frequentato per due anni un corso professionale di falegnameria. Il nonno aveva voluto che continuasse e, per quei tempi, studiare da falegname significava aprirsi una strada di emancipazione dai lavori nei campi, come bracciante. La sorte, poi, non ha voluto così: per anni ha lavorato come bracciante. Solo nel dopo guerra, durante il periodo della ricostruzione, diventava un muratore molto richiesto.
Franco era stato stazionato presso i nonni, perché il papà e la mamma erano “ai lavori” in Germania. Non si sapeva quando sarebbero tornati. I mesi passavano, aveva imparato a parlare bene, in dialetto, e si esprimeva con un linguaggio fluido e ricco per la sua età.
Un giorno papà e mamma si presentavano sulla porta di casa, dopo le dodici, mentre Franco, i nonni e gli zii stavano pranzando. Il nonno, poco prima, al ritorno dal campo, gli aveva detto che in giornata vi sarebbe stata una bella sorpresa, ma che, perché era una sorpresa, doveva avere molta pazienza. In quella casa si era continuamente in attesa. In quella casa occorreva aspettare ed avere pazienza. Qualche volta, per far ridere i presenti, aprendo le braccia, alzava gli occhi al cielo e diceva: “Pasiensa!”. La “z” non la sapeva ancora usare.
All’improvviso qualcuno bussava e, nello stesso istante, la mamma si affacciava. “Ah, mamma!” Era nelle sue braccia. Dietro ci stava il papà. Un abbraccio a tre.
La mamma non si sarebbe più allontanata da lui, papà invece sì, la guerra glielo avrebbe rubato per anni. Poi, fu lui, grande, ad allontanarsi per prendere la sua strada.
Come ricordo del ritorno dei genitori dalla Germania, per anni rimase un trenino, passato di casa in casa, con cui giocava e faceva giocare tanti altri bambini, invidiosi di quel regalo.
Il trenino fu abbandonato in una cassa e successivamente distrutto dal fratellino.